Il dibattito in merito alle retribuzioni pagate dall’erario, dopo aver riguardato ministri e parlamentari, sta toccando come è giusto anche i dirigenti pubblici.
Tecnicamente la materia doveva da tempo essere riformata secondo criteri manageriali, mentre adesso viene investita da un approccio iconoclasta, che rischia di soddisfare più le esigenze di estensione dei sacrifici o di lotta tra elités, che non quelle di far funzionare al meglio il governo della macchina burocratica. Pertanto è il caso di non perdere l’occasione fornita dall’attenzione dei media su questo tema per affrontarlo compiutamente.
È utile partire domandandoci che cosa una società deve chiedere alla dirigenza pubblica. A questo si può rispondere sinteticamente: capacità di assicurare servizi e attuare politiche (del lavoro, sociali, sanitarie, di sviluppo, et), attraverso la migliore gestione delle risorse pubbliche (personale e budget). È per questo che si assumono i dirigenti pubblici; e gli uffici, creati dall’indirizzo politico, dovrebbero rispondere a tali finalità.
Quindi, partendo dalla prestazione loro richiesta, si dovrebbe determinare la “giusta” retribuzione, che dovrebbe essere legata in parte alla complessità della struttura assegnata (personale, budget, responsabilità esterne, et) e in parte agli obiettivi assegnati e conseguiti.
Questa ricostruzione, in apparenza accademica, è volta a mettere ordine in merito, nonché a capire se scandalizzarsi e su che cosa. Prima di decidere se le retribuzioni debbano essere decurtate del 10 o 20 per cento, è utile capire come dovrebbero essere determinate, soprattutto in una fase storica in cui alla dirigenza pubblica occorrerà chiedere il massimo impegno. Se la retribuzione viene definita “a prescindere”, infatti, siamo già nel grave errore e i tagli o i tetti si rivelano poca cosa e rischiano di nascondere il male peggiore.
Date le regole prima indicate, possiamo dire purtroppo che in generale, ma soprattutto a livello di apparato statale, non c’è differenziazione e proporzionalità delle retribuzioni in relazione alla complessità della struttura. Bene che vada la retribuzione di posizione (connessa alla dimensione e complessità della struttura) è uguale per tutti. Anzi in alcuni casi persino inversamente proporzionale alla complessità e sovente direttamente proporzionale all’anzianità. Se un manager gestisce tutte le entrate di uno Stato o la spesa pubblica oppure le pensioni o le forze di polizia non può prendere meno di chi non ha responsabilità così rilevanti o addirittura non ha neppure personale e budget da gestire.
Vi è poi la retribuzione legata ai risultati, che, ad esempio a livello di apparato statale pesa tra l’8 e il 12% della retribuzione complessiva, contro percentuali del 20% della media Ue e del 20-25% del settore privato. Tale percentuale paradossalmente nel pubblico si riduce ulteriormente nel caso dei livelli di dirigenza più elevati. Questo per una retribuzione da dirigente è “scandalo” e ci fa dire che la politica delle retribuzioni per i dirigenti non è stata diversa da quella stabilita per i commessi o gli autisti, anzi. Una norma del d.lgs. 150/2009 (art. 45 del decreto “Brunetta”) individuava in almeno il 30% di quella complessiva la retribuzione di risultato, ma l’entrata in vigore di questa disposizione è stata rinviata alle calende greche con buona pace di tutti. Ma lo scandalo non sta forse neanche nella percentuale di retribuzione legata agli obiettivi, ma nella qualità degli stessi obiettivi che, solo recentemente resi obbligatoriamente pubblici, si rivelano spesso generici, formali, poco rilevanti per i cittadini e per nulla coerenti con figure di alta dirigenza.
Né i ministri, né tanto meno il Parlamento si sono preoccupati in questi anni degli obiettivi assegnati e se questi venivano realmente raggiunti, pur in settori particolarmente delicati. Eppure il controllo della spesa, la lotta all’evasione, la riduzione della criminalità, la gestione delle pensioni, la lotta alla disoccupazione e così via dipendono da quello che fanno i dirigenti pubblici. Non solo, ma proprio negli ultimi anni il legislatore italiano ha approvato la c.d. riforma Brunetta, in cui il termine performance compare ben 100 volte e che ha previsto l’istituzione di un’authority, la Civit, che sforna quotidianamente numerosi documenti sulla misurazione e valutazione della stessa. La questione allora, senza toccare qui altri aspetti come la pluralità degli incarichi, oppure la distinzione tra politica, controllo e gestione (sono funzioni che vanno remunerate in ugual modo?), non è che i dirigenti pubblici italiani sono poco o molto pagati, ma riguarda il fatto che sono innanzi tutto “mal pagati”. Senza un criterio logico e, dovremmo dire, manageriale.
Visto che si vuole intervenire con legge sui trattamenti economici dei dirigenti decurtandoli, sarebbe meglio intervenire anche aumentando la percentuale della retribuzione correlata al raggiungimento dei risultati ed inserire clausole privatistiche come la clawback provision, che consente, ad esempio, di recuperare parti di retribuzione o bonus, inizialmente riconosciuti in più rispetto ai risultati definitivamente accertati. Uno strumento di garanzia e di responsabilizzazione sull’attività del management in relazione alle priorità dell’indirizzo politico e alla famosa performance.
Data l’attenzione mediatica, ma, soprattutto l’obbligo di sottoporre a trasparenza i compensi, dovremmo pensare di sottoporre a trasparenza anche le prestazioni. Faremmo un salto di qualità nella discussione e miglioreremmo i risultati della macchina amministrativa. L’opacità sulle retribuzioni si fonda innanzi tutto sull’opacità delle responsabilità e dei risultati. Scopriremmo che molte strutture dovrebbero essere riclassificate, soppresse, riorganizzate su funzioni realmente rilevanti, con un notevole risparmio di risorse e chiarezza di responsabilità, e che probabilmente, senza che ciò dia scandalo, dovremmo anche retribuire qualche dirigente meglio per quello che per la collettività fa.
Francesco Verbaro