Il dirigente pubblico non è un ‘eternauta’, inamovibile e per questo potente. Da un’analisi delle norme e dei fatti si può sfatare il mito del ‘posto a vita’. Anticipiamo l’editoriale del professor Francesco Verbaro che è pubblicato in Guida al Pubblico impiego n. 1/2014, in corso di stampa.
Archiviata la legge di stabilità per il 2014, almeno dal punto di vista della sua approvazione, il dibattito sulla PA nel nuovo anno si apre con le proposte contenute nella enews inviata dal segretario del PD, Renzi, in materia di occupazione (JobsAct), che riguardano il settore pubblico e in particolare la dirigenza.
È importante che in un documento generale sulle politiche per il lavoro ci si preoccupi dell’efficienza e dell’efficacia del settore pubblico. Queste due dimensioni qualitative non devono essere declinate in astratto ma correttamente con riferimento a delle politiche e a dei servizi specifici.
Le anticipazioni sul JobsAct del PD contengono (e non potevano farne a meno) alcune indicazioni sulle riforme del settore pubblico, necessarie per migliorare l’efficacia delle politiche in materia di sviluppo e lavoro.
Quella che ha creato maggior dibattito tra gli addetti ai lavori (ed è forse meno comprensibile ai più) riguarda il rapporto annoso tra politica e dirigenza. Per un candidato premier e comunque leader del più importante partito del Parlamento, proveniente dal mondo degli enti locali, l’apparato burocratico ministeriale appare ancor più ostico e questo giustificherebbe la presenza nel documento sul lavoro di proposte in materia.
Il tema quindi, che andrebbe declinato e integrato nel dettaglio, non dovrebbe essere promosso (né tanto meno apparire) come uno scontro tra poteri (quello politico e quello amministrativo) ma come una riflessione su come rendere più efficiente, più efficace e più responsabile il processo decisionale. La proposta prevede l'”eliminazione della figura del dirigente a tempo indeterminato nel settore pubblico”. Le poche righe della enews precisano inoltre che “un dipendente pubblico è a tempo indeterminato se vince concorso. Un dirigente no”. L’obiettivo, sempre secondo il documento, è quello di porre uno “stop allo strapotere delle burocrazie ministeriali”.
Al di là del linguaggio da enews, l’argomento non è nuovo, anzi. Basti ricordare che l’art. 19 del Dlgs n. 165/2001, che disciplina le procedure di conferimento, revoca e rinnovo degli incarichi dei dirigenti, è stato modificato dal legislatore tantissime volte dal 1993 ad oggi, a conferma dell’attenzione che il legislatore ha posto al rapporto tra politica e dirigenza.
Come è noto agli addetti ai lavori, il dirigente pubblico ha un contratto di servizio a tempo indeterminato ed un contratto di incarico a termine che può variare da un minimo di tre ad un massimo di cinque anni. Inoltre, solo i dirigenti reclutati dall’esterno (art, 19, comma 6) vengono assunti ma per un periodo limitato senza concorso.
Ma la domanda che provoca il documento è: ci troviamo di fronte ad una dirigenza inamovibile e per questo potente? Analizzando le norme e i fatti possiamo dire di no.
La nomina, il conferimento, la revoca e conferma degli incarichi dei dirigenti sono oggi (dopo diversi interventi normativi e sentenze della Corte costituzionale) atti del vertice politico sottoposti ad alcune garanzie e procedure per assicurare il rispetto dei principi di buon andamento e di correttezza e buona fede. Nonostante questo, il legislatore, con una norma di dubbia costituzionalità ha comunque previsto al comma 18 dell’art. 1 del Dl 138/2011 la possibilità di destinare ad altro incarico un dirigente prima della data di scadenza dell’incarico ricoperto prevista dalla normativa o dal contratto.
Procedure, quelle di nomina, che mantengono comunque un ampio margine di discrezionalità in capo all’autorità politica. Rispetto all’esigenza avvertita dall’organo di indirizzo politico di scegliere i vertici dell’amministrazione, per completezza nella ricostruzione del quadro, occorre ricordare che, nella governance del processo decisionale dei ministeri, i vertici politici nominano figure importanti come i capi di gabinetto e i capi degli uffici legislativi, i quali definiscono e monitorano le scelte politiche, ma soprattutto predispongono le norme e decidono sostanzialmente quali norme sostenere e quali abbandonare. Quindi i ministri nominano in via fiduciaria i segretari generali e i capi dipartimento dei ministeri, che sono i soggetti che decidono sulle nomine e sugli atti di alta amministrazione di spesa. Pensiamo, ad esempio, al Ragioniere generale dello Stato, al Segretario generale della presidenza del consiglio dei ministri o del ministero del Lavoro e al ruolo da essi svolto.
Passando ai dirigenti di prima fascia, di livello dirigenziale generale, non possiamo certamente parlare di inamovibilità. I processi di riorganizzazione che hanno interessato i ministeri dal Dlgs n. 300/1999 in poi, anche con riferimento alle dotazioni organiche, hanno fatto si che gli incarichi dirigenziali di fatto venissero azzerati e/o modificati in media ogni due anni, consentendo quindi a qualsiasi ministro di poter effettuare cambi e rotazioni di incarichi dirigenziali dei dirigenti di prima fascia .
Analizzando ciò che è accaduto in questi anni, il problema è che la politica ha spesso sottovalutato l’importanza di queste nomine e ha spesso confermato i vertici esistenti, o li ha cambiati senza alcuna logica meritocratica. Anche di fronte ad errori grossolani i vertici di gabinetto o di amministrazione spesso sono stati confermati da più governi e più ministri. Il vertice politico, quindi, sui margini di flessibilità e di nomina (ampi e importanti) riconosciuti dal legislatore non ha dato grandi prove. Anzi possiamo dire che spesso non ha utilizzato il potere discrezionale di nomina dei vertici di gabinetto e di amministrazione. Non è un caso che nei confronti di certe figure, centrali nei processi decisionali, si sia coniato il termine di “eternauti”.
Infine, in un’ottica di sistema è utile rammentare come la politica ha preferito utilizzare questi posti dirigenziali per logiche clientelari minute, aumentandone il numero e senza pretendere da essi performance qualificate e misurabili. Non a caso non è dato rinvenire nei ministeri, da quando è stata istituita (dal 1993 ad oggi) nessun caso di revoca dell’incarico dirigenziale per responsabilità dirigenziale. Lo stesso ciclo di valutazione della dirigenza, che prevede che il vertice politico individui obiettivi misurabili e valuti la dirigenza, è stato formale e inutile, al punto che i casi di valutazione negativa si contano sul palmo di una mano e che comunque i casi di non riconoscimento della retribuzione di risultato sono stati nei ministeri pressoché inesistenti. Non a caso il legislatore con il Dlgs n. 150/2009 si trova a scrivere l’assurda norma (art. 5) che prevede che gli obiettivi fissati dai politici debbano essere misurabili, importanti e non falsi.
Il vertice politico, a livello ministeriale, ha preferito quindi utilizzare le leggi e i regolamenti di organizzazione, attraverso le cessazioni automatiche ivi previste, per cambiare qualche dirigente e non come avrebbe dovuto i sistemi di valutazione. È stata la Corte costituzionale poi più volte adita a dichiarare l’incostituzionalità di queste norme di “precarizzazione” delle dirigenza.
Tutto questo per dire che se si vuole rendere efficace e migliorare il processo decisionale, nello snodo delicato del rapporto tra politica e amministrazione, gli strumenti ci sono e sono rilevanti ma che essi non vengono paradossalmente utilizzati.
C’è la consapevolezza diffusa che il settore pubblico richiede un profondo intervento di semplificazione e razionalizzazione organizzativa che parta dalle competenze. Prima di fare un’eventuale riforma della dirigenza pubblica cerchiamo di riflettere sui tentativi ed errori passati e presenti. Proprio al fine di migliorare la qualità delle riforme.
Il settore pubblico per la sua rilevanza e centralità rispetto alle diverse politiche richiede la massima attenzione, essendo già stato colpito pesantemente da numerose e dannose campagne mediatiche.