Onorevoli Presidenti, onorevoli membri delle Commissioni riunite,
il processo di riforma del lavoro pubblico avviato negli anni ’90 si è caratterizzato per l’attenzione alla convergenza con il settore del lavoro privato. La contrattualizzazione del rapporto di lavoro, però, non è mai stata accompagnata da una vera privatizzazione dell’organizzazione del lavoro e dei processi. Lo sforzo della riforma si è limitato principalmente alle fonti regolatrici, sottovalutando e mantenendo invariate le caratteristiche e le dinamiche dell’organizzazione pubblica.
Si può dire, più in generale che, diversamente dal settore privato, il legislatore prima e il datore di lavoro pubblico poi non si sono preoccupati particolarmente di rafforzare l’orientamento delle organizzazioni alle funzioni e ai risultati (il passaggio, cioè, dai procedimenti ai risultati), nonostante l’influenza degli studi di derivazione anglosassone sul management by objective e una forte pressione della società verso un’amministrazione che produca di più e costi meno avrebbero potuto favorire la trasformazione verso organizzazioni orientate agli obiettivi e alla produttività o, come diremmo oggi, alla performance.
Invece una convergenza tra i settori pubblico e privato improntata esclusivamente sulle fonti regolatrici e sulla giurisdizione non ha fatto altro che aggravare le problematiche relative all’efficienza nell’utilizzo del fattore capitale umano, aumentandone il costo senza una maggiore produzione dei servizi.
A partire dagli anni ’90 abbiamo assistito ad una serie di processi organizzativi che avrebbero dovuto migliorare fortemente la produttività del settore pubblico, ma così non è avvenuto. Gli investimenti nelle ICT, l’incremento delle risorse destinate alla formazione, i numerosi percorsi di riqualificazione del personale, l’aumento di esternalizzazioni a società in house e sul mercato hanno prodotto in generale un incremento della spesa a diverso titolo, caratterizzato, al contempo, da un incremento del numero del personale, grazie anche al ricorso massiccio al lavoro flessibile, e da una riduzione evidente della produttività e del livello di alcuni servizi.
Non si è innescato, infatti, quel processo di responsabilizzazione, sia per il vertice politico sia per il vertice amministrativo, auspicato e disegnato da alcune norme delle riforme degli anni ’90 (es. elezione diretta del sindaco e valutazione attraverso i controlli interni), che avrebbe potuto guidare correttamente l’operato del datore di lavoro pubblico orientandolo verso un utilizzo efficiente dei “fattori della produzione” tra cui il personale. Sono cambiate le fonti che consentono di utilizzare con maggiore flessibilità le risorse umane, è stata riconosciuta maggiore autonomia nella gestione, è stato previsto un reale doppio livello di contrattazione con una significativa autonomia riconosciuta alla contrattazione di secondo livello, è stato esteso l’utilizzo dei contratti di lavoro flessibili, ma non è mutata l’organizzazione e l’approccio da parte del datore di lavoro.
Del mancato decollo della figura del datore di lavoro pubblico ne hanno approfittato le organizzazioni sindacali di settore, che proprio nel settore pubblico hanno rafforzato le proprie categorie e federazioni a discapito di una visione confederale e generale, attenta al ruolo del pubblico nell’economia e nella società.
E’ avvenuto in Italia ciò che si è verificato in altri paesi occidentali e soprattutto europei: data la forte trasformazione imposta dalla globalizzazione e informatizzazione al rapporto di lavoro nel settore privato, il sindacato si è concentrato soprattutto nel settore pubblico e in quello dei servizi pubblici.
Questo fenomeno non ha aiutato il processo di riforma del settore pubblico, ma, anzi, rischia di comprometterne gli esiti, proprio attraverso l’utilizzo distorto di quelle fonti e di quella autonomia che avrebbero dovuto guidare il processo di convergenza tra il settore pubblico e il settore privato.
Per ricordare la cronaca più recente, proprio le polemiche sollevate sulla produttività nel settore pubblico dai media e da esperti nel settore hanno condotto ad una sterzata sulle fonti regolatrici e ad un intervento legislativo severo sul rapporto di lavoro nelle pubbliche amministrazioni volti a superare le criticità emerse negli ultimi 15 anni.
Se, infatti, le recenti riforme del diritto del lavoro nel settore privato, su questo fortemente influenzato dagli studi economici, mirano a liberare il datore di lavoro da una serie di vincoli eccessivi nei confronti del lavoratore e delle organizzazioni sindacali al fine di assicurare una tutela volta a garantire il lavoro e i redditi, nel settore pubblico si è (condivisibilmente) scelta una diversa strategia: il datore di lavoro pubblico è stato “preso per mano” e vincolato da una serie di disposizioni di natura legislativa a comportarsi in maniera efficiente nell’interesse del buon andamento delle amministrazioni e non dei dipendenti, in definitiva da datore di lavoro privato.
E’ questo l’obiettivo di fatto della normativa contenuta nel d.lgs. 150/2009, la cosiddetta Riforma Brunetta.
Desideriamo per questo manifestare come dirigenti delle pubbliche amministrazioni il nostro apprezzamento per l’impianto della riforma contenuta nel d.lgs. 150/2009, in quanto essa mira a rafforzare i poteri della dirigenza in termini sostanziali e non solo formali, obbliga le amministrazioni a lavorare in un’ottica improntata alla performance e afferma il principio della trasparenza totale per favorire il controllo sociale sull’azione amministrativa.
Con riferimento allo schema di decreto legislativo correttivo appare necessario sottolineare l’importanza di una celere entrata in vigore dello stesso, in quanto una certa giurisprudenza ha messo in dubbio proprio l’immediata applicazione di quelle disposizioni che hanno liberato il potere datoriale da un eccesso di contrattazione collettiva e da un utilizzo improprio della concertazione.
La mancanza di chiarezza sui poteri e quindi sulle responsabilità della dirigenza ha portato la stessa ad abdicare ad un ruolo centrale nella riforma della PA.
Pensiamo, ad esempio, alla scelta dei profili professionali. Abbiamo solo profili generici amministrativi e mancano invece i profili tecnici, con la conseguenza che le progressioni economiche e giuridiche dei dipendenti sono state non di rado dettate da esigenze sindacali.
I fondi per la retribuzione accessoria sono stati ripartiti attraverso meccanismi automatici, a tutti i dipendenti, senza prevedere il giudizio di merito sul personale da parte della dirigenza. Oggi ci troviamo con una gestione del personale ingessata che non consente di spostare i dipendenti, né di utilizzarli in maniera flessibile.
Condividiamo, pertanto, le modifiche che il d.lgs. n. 150/2009 ha apportato all’art. 5, comma 2, prevedendo che il potere datoriale sia sottoposto alla sola informazione, come pure il contenuto del nuovo articolo 40 che circoscrive l’ambito di competenza della contrattazione. E’ infatti il caso di ricordare ciò che è accaduto in questi anni in materia di contrattazione.
Come è noto, pur essendo l’Aran l’agenzia tecnica di controparte, la presenza nel direttivo di rappresentanti sindacali ha comportato che spesso i contratti collettivi non fossero il risultato di intese raggiunte su posizioni rappresentative di interessi contrapposti.
Infine, in merito alle richieste di Regioni ed Enti locali, emerse nell’ambito dell’esame in sede di Conferenza Unificata, di ricorrere alla dirigenza esterna per percentuali superiori al dieci e all’otto per cento, desideriamo ricordare come la legge delega per la riforma della pubblica amministrazione (legge 15/2009) prevede una riduzione del ricorso alla dirigenza esterna. In ogni caso, le esigenze dei Comuni nei quali è prevista la figura dei dirigenti potrebbero essere soddisfatte con un arrotondamento ad almeno una unità di personale dirigenziale dall’esterno.