A venti anni da una grave crisi che investì l’Italia, sia dal punto di vista economico-finanziario sia dal punto di vista morale e legale, il nostro Paese si trova di fronte a una crisi forse ancora più grave, ma con le stesse emergenze di allora.
Negli anni novanta si è cercato di assicurare una riforma delle istituzioni e delle pubbliche amministrazioni che offrisse al Paese strutture realmente efficienti ed efficaci, in grado di affrontare la crisi degli Stati nazionali e del Welfare State.
In quel contesto si collocava la riforma del lavoro pubblico e della dirigenza in un’ottica manageriale, anche sulla spinta delle riflessioni e dei dibattiti che portarono ad affermare il management by objective nei diversi processi di riforma del settore pubblico a livello internazionale.
Forti erano in quegli anni le esigenze di efficienza e di moralità, in considerazione della grave crisi del 1992 che riguardò l’economia, la finanza e l’etica pubblica. La riforma del sistema elettorale con l’elezione diretta degli amministratori e la riforma del pubblico impiego e della dirigenza dovevano rappresentare un’importante risposta tecnica a quella crisi.
Ci si trova oggi dopo venti anni a domandarsi, almeno per quel che riguarda la riforma della dirigenza, cosa non ha funzionato di quella visione e di quelle proposte. Come mai non si afferma una cultura dell’efficienza e dell’efficacia? Quanto è colpa del capitale umano, quanto è colpa delle regole e del modo in cui sono state applicate? La contrattualizzazione e il rapporto di incarico sono stati declinati aumentando la precarietà invece di affermare il merito e un mercato selettivo della dirigenza: quanto ha inciso in tutto questo la mancata responsabilizzazione della politica nelle scelte fondamentali che ad essa competono?
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