Il tema del rapporto tra politica e amministrazione pubblica è certamente tra i più noti e trattati nella politologia e nel diritto. Hegel, Pareto, Mosca, Weber o Kelsen per citarne solo alcuni, hanno scritto pagine famose su questo tema. Un tema apparentemente “antico” ma che assume una forte attualità rispetto anche a recenti fatti che hanno riguardato l’amministrazione e il governo del nostro Paese.
Alcuni dei fatti rilevanti attinenti alla spesa degli ultimi anni sono connessi al ruolo (non) esercitato da parte della dirigenza delle pubbliche amministrazioni. Il buco nella sanità, nelle regioni e negli enti locali, la crescita a dismisura delle partecipate, l’aumento della spesa del personale, il ricorso massiccio al precariato, la duplicazione delle strutture non sarebbero accaduti o accaduti in maniera meno grave, se ci fosse stata un’amministrazione forte in termini di autorevolezza, competenza e soprattutto indipendenza.
Le norme che dal 1999 al 2009 hanno disciplinato gli incarichi dirigenziali hanno di fatto precarizzato la dirigenza tra cessazioni automatiche previste dalle riforme e riorganizzazioni, rendendo la durata media di un contratto di incarico pari a circa due anni. Spesso non vi era un cambio di ufficio, ma solo l’alea della non riconferma, sufficiente a sottoporre il dirigente ai desiderata del vertice politico. Non sempre nobili e virtuosi. Ancora più grave il quadro di precarietà della dirigenza regionale e degli enti locali, dove per anni l’80% della dirigenza è stata di nomina fiduciaria, con evidenti riflessi sull’attuazione delle politiche e sulla capacità di spesa, soprattutto nel mezzogiorno. L’art. 19 del d.lgs. 165/2001, la norma che disciplina il conferimento, la revoca e il rinnovo degli incarichi, è stato modificato oltre 20 volte ed è stato oggetto di ben 5 sentenze della Corte costituzionale. Basti ricordare, da ultimo, che se il d.lgs. 150/2009 aveva introdotto delle norme di garanzia rispetto alla mancata conferma dell’incarico e la revoca anticipata attraverso i commi 1-bis e 1-ter all’art. 19, il DL 78/2010 prima (art. 9, comma 32) e il DL 138/2011 poi (art. 1, comma 18) intervengono nuovamente eliminando le tutele da poco inserite.
Dei dati che fanno capire quanto forte sia stata in questi anni l’attenzione e la pressione della politica sulla dirigenza, con effetti negativi comunque sulla gestione della macchina amministrativa e rafforzando il sentimento di sfiducia nei confronti della “cosa pubblica”.
Il timore che ha un governo ogni qual volta succede ad un altro di trovarsi i conti fuori posto (“polvere sotto il tappeto”) e di scoprire dei buchi ormai è noto, al punto che il legislatore ha dovuto introdurre un ‘autorità indipendente sui bilanci, l’inventario di fine mandato e rendere il ragioniere di un ente locale non facilmente rimuovibile. Questo a testimonianza della mancanza di una dirigenza forte ed imparziale che svolga la propria funzione nel rispetto dei principi di imparzialità e buon andamento, a partire dal momento centrale della vita di un ente quale è la gestione del bilancio.
I fallimenti di comuni e regioni, il debito pubblico nascosto e fuori bilancio o fenomeni più complessi come la vicenda “esodati” e i controlli sulle fondazioni e le banche chiamano in causa l’autorevolezza e l’indipendenza della dirigenza. Un bene pubblico poco percepito purtroppo. I danni che si possono generare da una mancata vigilanza e mancato intervento o segnalazione, anche se non esplicitamente previste dalla legge, possono essere enormi e non sono mai facilmente individuabili in quanto rilevabili solo ad anni di distanza. Dopo c’è solo da mettere le mani in tasca agli italiani e finanziare i buchi con nuove tasse. La mancata vigilanza e la mancata utilità della pubblica amministrazione rafforzano l’idea diffusa nell’opinione pubblica di un’amministrazione pubblica che costa solo e non produce servizi. Il male di questi anni, che ha fatto saltare il patto tra Stato e cittadino, è che la spesa per le pubbliche amministrazioni è cresciuta ma non sono cresciuti i servizi e i benefici, anzi.
Compito della dirigenza è oggi quello di far capire questa funzione importante, che sola può giustificare le garanzie sul conferimento dell’incarico o un elevato trattamento economico, senza che tutto questo appaia come un “privilegium“. Una funzione che giustifica il pagamento delle tasse dei cittadini e attenuti quello che i politologi chiamano “crisi dello Stato” o “disagio della democrazia”.
La perdita di autorevolezza della dirigenza ovviamente ha avuto dei riflessi anche sulla retribuzione dei dirigenti, la quale non ha il problema di essere poca o troppa in astratto ma di non essere correlata a responsabilità e risultati se non per percentuali ridicole. Il tema, erroneamente trattato introducendo un tetto pari a 300 mila euro, non è tanto quello di quanto prendono i dirigenti, ma di cosa sono tenuti a fare per quel compenso. Al ragioniere generale dello stato, al capo dipartimento del tesoro, al direttore dell’Inps o al direttore generale dell’Agenzia delle entrate non bisogna porre tanto il problema della retribuzione, ma quanto quello delle responsabilità e degli obiettivi. Guardare solo ad un lato del sinallagma, la retribuzione, e non alla prestazione, alle responsabilità e alle funzioni che dovrebbero essere assicurate significa tristemente abdicare ad ogni funzione pubblica, anche a quelle più delicate.
La distinzione tra indirizzo politico e gestione ha una sua rilevanza, però, non solo nel divieto per il politico di intervenire nella gestione, ma soprattutto nell’evidenziare le due responsabilità dei due ambiti del processo politico decisionale. Vi è una responsabilità dell’organo di indirizzo politico nel definire i programmi, nell’assegnare gli obiettivi, nell’assegnare le risorse umane e finanziarie che non è mai stata sottoposta a verifica, che naturalmente condiziona tutto il processo di programmazione e gestione. Se i programmi e gli obiettivi formalizzati non contano, assumono rilievo altre dinamiche, come ad esempio la fiduciarietà politica o il grado di accondiscendenza. Il rapporto come è noto non è di separazione, ma di distinzione in un rapporto di condizionamento reciproco sul quale poco si riflette. Non solo il ruolo e il peso degli uffici di diretta collaborazione alterano e rendono dinamico tale rapporto, rispetto a quanto previsto dall’art. 4 del d.lgs. 165/2001, ma i fattori che condizionano oggi la politica ovviamente non possono non riflettersi sul rapporto con la dirigenza e con la gestione. Il ruolo dei media, ad esempio, ha degli effetti anche sulla dirigenza e sulla gestione, proprio per la presenza di un meccanismo di “distinzione” e non di “separazione” che condiziona i tempi e gli strumenti della politica (vedi utilizzo decreti legge o commissari straordinari) ma al contempo anche i tempi della dirigenza. La complessità dei fenomeni sociali ed economici poco si concilia con i tempi dei media e dei social network che pretendono che la risposta politica segua i tempi di un articolo o di un comunicato stampa. Ciò cambia i valori e i criteri di valutazione dell’organo di indirizzo politico, che è portato ad apprezzare e preferire così la risposta celere e positiva alla riflessione e allo studio. Chiunque abbia ricoperto un ruolo rilevante a livello di amministrazione potrà dire quante volte (poche) si sia deciso sulla base di un’analisi, di uno studio o di una ricerca e quante (tante) piuttosto sulla base di un articolo, un comunicato stampa o un ‘emergenza.
Riflettere oggi sul rapporto tra indirizzo politico e gestione ci costringe a fare un esercizio nuovo da collocare nel contesto economico e sociale dei prossimi anni. La governance che dobbiamo disegnare deve innanzi tutto consentire alle nostre istituzioni di far fronte con “imparzialità” e “buon andamento” a sfide epocali come il ridisegno dello Stato, la crisi finanziaria, la crescita economica e le sfide demografiche.
Richiamare queste sfide serve ad evitare l’ennesimo esercizio autoreferenziale, che fa apparire ai più il tema trattato come un problema di scontro tra poteri o peggio tra caste. Quello di cui certamente non abbiamo bisogno.
Interventi normativi – non chiamiamole più riforme – dovranno avere al centro l’interesse e il bene delle generazioni presenti e future, illuminati da una declinazione moderna e aggiornata dei principi di imparzialità e buon andamento. Due riferimenti tutt’ora validi nel caos liquido dell’era globale.